Quando i teatri erano l’intrattenimento popolare più diffuso

Il Teatro Diego Fabbri fu chiuso il giorno precedente l'apertura della stagione invernale, in ottemperanza al Dpcm. Aveva appena inaugurato il dono del lampadario che da allora è rimasto acceso nell'atrio ad aspettare gli spettatori.

I primi a chiudere – da DPCM antiCovid – sono stati i teatri. Sbigottito, l’ho detto a un amico.

Provocatoriamente, mi ha risposto: “Che differenza fa? Tanto non ci va più nessuno”.

Possiamo scandalizzarci per il cinismo, ma se vogliamo essere sinceri il mio amico ha sintetizzato in una battuta il dramma che si sta svolgendo: che si è chiuso un luogo sicuro, fatto da un pubblico adulto e responsabile, e anche che – purtroppo – il teatro non è più una sana abitudine, come leggere. Per i forlivesi, e gli italiani in generale.

Eppure non è sempre stato così.

Per esempio le tragedie di Shakespeare avevano un pubblico fatto di vecchi e giovani, ricchi e poveri, padroni e servitori, papisti e puritani, uomini di chiesa e statisti… il pubblico fischiava, applaudiva, partecipava.

Lo storico americano Lawrence William Levine scrisse che: “Shakespeare era un intrattenimento popolare nel XIX secolo e svolgeva il ruolo che i film avrebbero svolto nella prima metà del XX: era un’istituzione caleidoscopica e democratica, che offriva un menù estremamente vario a tutte le classi e i gruppi socioeconomici».

Nel Novecento, la trasformazione di Shakespeare fu la peggior tragedia per il teatro. Una tragedia mai scritta o rappresentata sul palco, che avvenne in platea.

Shakespeare fu trasformato da autore popolare (nel senso letterale del termine) ad autore riservato ai pochi. Era intrattenimento: diventò erudizione. Era di proprietà dell’uomo della strada: diventò possesso di circoli elitari.

Perciò oggi il sociologo francese Bernard Lahire può affermare che: “L’estraneità di gran parte della popolazione al teatro è solo l’ultimo anello della lunga opera di separazione fra cultura alta e cultura popolare, una separazione deliberatamente perseguita”.

Ma il bisogno che ognuno ha, di ascoltare i ‘grandi’… resta. Mi riferisco al bisogno di sentire cosa hanno ancora da dirci dopo secoli. Io ne ho bisogno, per me è indispensabile.

Oggi, a vent’anni dall’inizio del XXI secolo, uno dei luoghi che risponde a questo bisogno continua a essere il teatro.

È un’esperienza e come tale va fatta per poter decidere se è interessante oppure no. Nessuno è nato spettatore ma lo può diventare. Un teatro riservato a poche persone è quanto di più distante da me. Lavoriamo perché i teatri tornino ad essere parte della cultura quotidiana dei cittadini, parte di un’offerta culturale completa.I teatri adesso sono chiusi: teniamo viva la curiosità, e sarà sold out quando riapriranno.

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